
Intervista a
Antonello Soro
ricordare che trattare dati per una Amministrazione vuol
dire trattare persone, trattare la vita dei cittadini garantendo
a essi la sicurezza delle informazioni che li riguardano.
Oggi gli amministratori devono studiare la normativa e
provvedere di conseguenza, senza aspettare il 25 maggio.
Il Nuovo Regolamento è stato approvato un anno e mezzo
fa, non è stato fatto in modo clandestino nel senso che si sa
che questo è un appuntamento importante. Noi abbiamo
cercato da tempo di sensibilizzare tutta la pubblica opinione
e io, devo dire, non ho motivo di credere che la Pubblica
Amministrazione italiana non farà il suo dovere. Lo ha
fatto in tante altre circostanze. Ci sono stati momenti in cui
pubblici amministratori sia nel territorio sia al centro, hanno
affrontato con successo nuove sfide. Confidiamo che anche
in questo caso ci sia un risultato positivo che poi non è un
risultato di un giorno è un impegno che deve continuare
Questo richiede probabilmente una rivisitazione dei processi
all’interno della pubblica amministrazione
Certo, ma anche ogni impresa privata dovrà rivedere la
propria organizzazione. La trasformazione digitale è un
processo che è in corso che è stato impostato con maggior
attenzione all’efficienza, ai costi, ai ricavi e meno alla
protezione dei dati. Ora non possiamo più tardare. La
protezione dei dati è una emergenza perché sono tanti i f lussi
nella disponibilità della Pubblica Amministrazione che non
è immaginabile che questi vengano mandati in un cloud
insicuro, tanto per fare un esempio. Se ciò dovesse capitare
l’amministratore responsabile ne risponderà.
Quali sono le differenze tra Pubblica amministrazione
centrale e quella locale nei processi d’attuazione del Gdpr?
In questo caso la differenza la fa il volume dei dati. Il numero
non è una variabile dipendente. Più cresce la quantità di dati
più cresce la superficie di rischio, questo vale in assoluto.
Per cui fra l’Agenzia delle Entrate o l’INPS, che hanno i
dati di tutti gli italiani, e un piccolo Comune, la differenza
è sostanziale, sempre facendo riferimento alla dimensione
quantitativa. Ma è anche vero che quei 32 o 33 abitanti
del più piccolo comune italiano che sta in Piemonte, non
gradirebbero la violazione dei propri dati personali anche
se fosse l’unica violazione che interviene, proprio perché
riguarda le loro persone. Il diritto alla protezione dati, in
quanto diritto fondamentale, appartiene a (e avvantaggia)
tutti. La complessità dei sistemi di protezione richiede
naturalmente organizzazioni più sofisticate quando si ha a che
fare con dati affidati da milioni di persone. Però l’impegno e
la responsabilità devono essere gli stessi.
Sono pronte le Amministrazioni a questo cambiamento?
Certamente cresce il livello di apprensione ma anche quello
Certamente cresce il livello di apprensione ma anche quello
di responsabilità. Devo dare atto al Presidente dell’Anci,
Antonio Decaro, di aver svolto una importante attività
d’informazione che continuerà nei prossimi mesi. Anche
il Parlamento, nell’ultimo periodo, ha manifestato alcuni
momenti di attenzione maggiore al tema. Ovviamente
da parte nostra abbiamo avviato da tempo una serie di
iniziative editoriali e divulgative per spiegare e sensibilizzare
i settori pubblico e privato.
Da più parti si sostiene che spesso le grandi imprese private
hanno maggiore disponibilità di dati personali delle stesse
Pubbliche Amministrazioni.
Che le grandi imprese, cosiddette
over the top
, abbiano nel
mondo una quantità di informazioni maggiori di quelle di
ogni Amministrazione è un dato di fatto. Ma queste hanno il
dovere di far sapere al cittadino dove stanno i suoi dati, quale
utilizzo ne viene fatto, da chi sono stati forniti e così via.
L’esercizio di questo diritto è determinante. È obbligo di legge
quello di dar conto di che cosa io ho fatto delle informazioni
che mi sono state affidate. Il cittadino in qualunque momento
può esercitare il diritto di auto controllo, auto informativo,
di recupero di quel pezzo della sua vita digitale affidato a
un operatore. Naturalmente quando i dati diventano big data
questo è un po’ più complicato perché gli anelli della catena
sono infiniti e questa è una delle difficoltà che abbiamo.
Con i nostri dati abbiamo visto come si sono arricchite le
grandi imprese dell’economia digitale. Da più parti si è
avanzata l’idea che il cittadino possa vendere i propri dati,
insomma partecipare in qualche modo alla ricchezza prodotta.
Mi sembra un tema molto delicato. Noi forniamo spesso
dati per avere un servizio gratuito. In realtà di gratuito c’è
veramente poco. Quel servizio in realtà è il corrispettivo di
una attività economica che produce profitti elevatissimi. Il
problema, come in tutte le cose, è la trasparenza dei processi
di trasformazione digitale e di comunicazione digitale che
dobbiamo promuovere. I cittadini in qualunque momento
devono essere messi nelle condizioni di sapere quali sono
gli effetti di quella trasformazione, cosa può accadere alla
loro persona. Dopodiché se uno è consapevole di questo
e decide di cedere i propri dati per avere un vantaggio
esprimere un consenso, che ha un valore importante. Ma
l’espressione di un consenso spesso oggi avviene attraverso
firme poste su fogli illeggibili, una distorsione del sistema
di informazione che sempre di più si è diffusa in questi
anni. Oppure il sistema distorto delle richieste di consenso
dei siti web. Ormai nessuno ci fa più caso, diamo il nostro
consenso di default. E se così non facciamo ci viene impedita
la navigazione. Oggi siamo concentrati sulla protezione dei
nostri dati, sull’importanza della nostra identità digitale,
insomma su come garantire l’unicità della nostra personalità
fisica e digitale, la nostra liberta. La vendita profittevole per i
singoli cittadini di parte della propria identità digitale, è però
un’altra storia, ancora da scrivere e normare.
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01-02/2018
| ANNO XV GENNAIO - FEBBRAIO